lunedì 7 marzo 2016

DILLER E SCOFIDIO+RENFRO : PASSAGGI, DISSOLVENZE


Dalla fondazione del loro studio nel 1979, Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio hanno  incentrato il loro lavoro basandolo su una stretta integrazione tra architettura, progettazione urbana,paesaggio, media arte e spettacolo  realizzando molti progetti, che includono performance, installazioni d'arte e libri, oltre a edifici e spazi pubblici .
Al centro di questo lavoro emerge la capacità e la volontà di mettere in discussione le certezze e i principi che da tempo conformano la nozione di architettura, cercando di ampliarla, di espanderla fino a trasformare  la natura e la nozione stessa di spazio e di percezione all’interno della cultura contemporanea:  producono edifici che sorprendono, realizzati con materiali nuovi che contaminano l’architettura fino a trasformarla.
Cambia totalmente il rapporto tra edificio e paesaggio, tra costruito e ambiente, tra uomo e architettura,  e proprio i loro progetti diventano “ strumenti meccanismi “ che riescono ad attuare un interazione totale  tra questi  elementi.
L’idea stessa di edificio come entità statica, chiusa, autonoma, non reattiva  è eliminata ……. L’edificio diventa un elemento di mediazione ….” E ancora “ l’edificio si pone come elemento di trasformazione come mediatore tra situazione, desideri, condizioni”. (A.Saggio)











Opera chiave per comprendere il loro apporto alla teoria architettonica contemporanea è sicuramente  “Blur”, padiglione multimediale per EXPO Svizzera 2002 alla base del Lago di Neuchâtel a Yverdon - les - Bains , in Svizzera .
Attraversiamo  una parte del lago e camminando lungo il ponte  suoni  e immagini della nostra mente vengono sospesi ,la nostra attenzione è rivolta al raggiungimento della nuvola di nebbia , il padiglione, appunto, che è fatto di acqua, filtrata dal lago che viene trasformata in nebbia sottile tramite 13.000 ugelli, che nebulizzandola ,creano una nube artificiale,300 piedi di larghezza per 200 piedi di profondità e 65 piedi di altezza, dentro cui camminiamo,  dentro un vuoto bianco, con un solo rumore di sottofondo , il “rumore bianco " del pulsare degli ugelli.
Una stazione meteorologica  integrata  controlla l'uscita della  nebbia in risposta alle mutevoli condizioni climatiche come temperatura, umidità , direzione del vento  e velocità del vento.















Prima di entrare nella nuvola , ogni visitatore risponde a un questionario e riceve un " braincoat " (impermeabile ) . Il mantello è usato come protezione dall'ambiente umido e diventa una nuova pelle dello spettatore, una pelle in grado di memorizzazione i dati della personalità, le reazioni, le “emozioni” per comunicarli alla rete di computer.
 Utilizzando il monitoraggio e la posizione rilevata dalle tecnologie , ogni visitatore viene identificato e con lui ogni profilo è riconosciuto e distinto rispetto a qualsiasi altro visitatore.
In questa  confezione di vetro , in questo vuoto-occupato, circondato da vetro su sei lati , i visitatori sperimentano  un " senso di sospensione fisica solo accresciuta da una apertura occasionale nella nebbia ".














Passano uno dopo l’altro e i loro cappotti cambiano colore in base  al grado di attrazione o repulsione , è involontario: rosso per affinità , verde per antipatia , consentendo l'interazione tra  400 visitatori in uno stesso momento .
I visitatori possono alla fine salire su  un altro livello fino al bar.
“Senza l'attesa della costruzione, l' immaginato e non costruito o il non-costruibile , avrebbe poca risonanza." “C.Diller”

 La salita finale assomiglia alla sensazione del volo, quasi come attraversare uno strato strato di nubi  e ritrovarsi di fronte al cielo aperto, per guardare il lago.



Nuove modalità percettive: l’architettura-arte, comunica attraverso sensazioni, colore, ma anche temperatura e odori, è una comunicazione totale, che disorienta e però riesce anche a trasmettere e quindi a in-formare l’individuo, trasportandolo verso paesaggi sconosciuti, ibridi, nuovi modi di guardare.
Esaminiamo anche un altro progetto, interessante e mai costruito però, precedente al padiglione, la “ Slow House”.  Incaricati di costruire una casa per vacanze nella parte orientale di Long Island, N. Y.,sul lungomare,  quello che gli architetti propongono è una casa che diventa un dispositivo abitabile, per una vista privilegiata sul mare, in termini più semplici gli architetti la definiscono un “PASSAGGIO” da una porta a una finestra.




















La casa non ha facciata, solo un portale alto e stretto con una porta anteriore girevole entrando e si possono scegliere due percorsi, separati da un divisorio: un corridoio curvo che conduce lungo le camere da letto a livello del suolo, l’altro sale gradualmente verso una zona soggiorno alta di fronte al mare, di fronte a una parete vetrata. Qui l’azione della vista dell’acqua è stata arricchita attraverso strumenti elettronici: una telecamera installata su un braccio inclinato in alto e lontano dalla casa può registrare la vista e i suoni , che poi possono essere simultanee o trasmesse differite, mostrando una vista estiva di inverno o una tempesta in giornate limpide.






Altri i dispositivi visivi dell’abitazione, le finestre che inquadrano un dettaglio di paesaggio,  o il parabrezza dell’auto sull’esterno, una molteplicità di esperienze visive, ma è anche nella conformazione stessa della casa che si trovano molti rimandi: collegamenti con le opere di  Richard Serra, similitudini con architetture famose come casa Malaparte, o la Endless house, con  l’assenza degli elementi canonici dell’architettura che si minimizza fino a far rimanere solo due pareti, solo un guscio variabile, che ci accompagna durante il passaggio, durante l’attesa della vista del paesaggio.





Anche nella High Line, troviamo come principio guida quello dell’integrazione totale tra natura e artificio, lungo il percorso verde e parti pavimentate non si distinguono mai nettamente ( il confine del pavimento è frastagliato, non finito), e nelle immagini non si capisce se è la vegetazione che sta per occupare le parti di pavimento o il contrario, e attraverso la città si insinua questa linea verde, sembra anche questo un paesaggio sospeso in attesa che succeda qualcosa, quasi un'altra realtà, estraniante.





lunedì 29 febbraio 2016

MIRALLES: LINEE SPAZIO-TEMPO



Enric Miralles (Bercelona 1955- Sant Feliu de Codines 2000).
“ Mi è difficile presentare la mia opera come se qualcuno la stesse  aspettando, come se fosse la soluzione a qualcosa…..mi sento distante dal carattere persuasivo del discorso delle avanguardie storiche.
Alla fine mi interessa di più il carattere riflessivo, materiale dell’opera costruita: la complessità del suo farsi.”

Inserire Miralles in un linguaggio architettonico codificato è difficile, non si può considerare il suo lavoro come l’applicazione di uno “stile”.
Tuttavia i riferimenti alla corrente del decostruttivismo, voluti o attribuiti sembrano abbastanza evidenti, ma a mio parere, egli ne usa gli strumenti , gli elementi, e li arricchisce , li contamina con altri linguaggi e frammenti  che gli derivano dalla sua storia personale, dalle influenze degli architetti catalani piu’ famosi, li arricchisce soprattutto ad ogni progetto di tracce e segni che prende dai luoghi  dove lavora, tracce di vita di spazio e tempo.
Miralles ai suoi allievi faceva montare e smontare la sedia Thonet n. 41,in questa vecchia sedia egli vedeva riuniti molti principi che ritroviamo nelle sue architetture: veniva sfruttato al meglio il materiale ( legno curvato),  era dimostrazione dell’importanza dell’aspetto artigianale dell’architettura ,“ la complessità del suo farsi”, in questo processo si racchiude molta parte dell’opera dell’architetto, che appunto come lui ci tiene ad affermare non è un “gesto” ma un “processo”.



Una delle parti più coinvolgenti della personalità è la parte ideativa e rappresentativa delle sue architetture, diverse le tecniche che usa: collage, frammento, montaggio, plastici, foto e nei suoi disegni tutto è messo sullo stesso piano, non c’è un elemento predominante tutto si lega a tutto, sembra quasi che la mano sia guidata da un pensiero continuo, non armonico dissonante,e che non riesca a staccarsi dalla carta.
Disegni complessi, stratificati, che integrano piante e sezioni, ribaltamenti e sovrapposizioni e della tavola entra a far parte tutto, si parte dal collage sul contesto, si passa attraverso il plastico, e non si inserisce solo quello finale ma anche tutte le prove e gli studi, per passare attraverso planimetrie, contesti, edificio fino ad arrivare al dettaglio, nelle sue tavole Miralles e il suo studio ci mostrano appunto il processo creativo e riflessivo.

Questo modo di operare e costruire l’architettura diventa l’architettura stessa, le sue opere sono infatti dei processi,  molte si legano al concetto di variazione: un elemento base che spostandosi nello spazio e muovendosi crea spazi intorno a percorsi, linee  che legano insieme spazio movimento e soprattutto il tempo, che per Miralles forse diventano i tempi,  le storie, le memorie, gli spazi, le tracce, realizzando architetture piene di vita, connessioni e rimandi.
Il suo rapporto con il contesto è particolare: lo studia lo osserva, ma non come un esaminatore distaccato,egli entra in sin-tonia con i luoghi, e il suo legame è talmente profondo che riesce a capire regole meccanismi, e a introdurre anche un aspetto non secondario nelle sue architetture, quello del gioco e dell’ironia e in  : gli elementi del contesto non sono solo tracce, ma sono reinventati  e la scelta di quali riproporre o quali inserire nel processo di progettazione  non è data solo dalla loro importanza storica, ma soprattutto da un valore simbolico e mnemonico degli elementi stessi.


Il suo rapporto con i luoghi lo dichiara egli stesso, nelle parole che descrivono alcuni suoi progetti, che riporto di seguito, proprio a dimostrare come ogni sua architettura crei queste linee spazio-tempo.

Circa la ristrutturazione di casa sua “Ristrutturazione di un appartamento in calle Mercaders,
Barcellona, Spagna 1997:

“È stato un lavoro di pulizia, di avvicinamento e di scoperta dell’intensità d’uso della costruzione … Sempre gli stessi muri, … gli stessi solai, usati e riusati dall’epoca gotica ad oggi …… imparare a convivere con una struttura data, di seconda mano, come quando si cerca nelle tasche di un vecchio cappotto e poi si depositano le cose trovate su di una superficie piana pulita …. Questa casa funziona come una scacchiera ...
i pezzi si muovono ognuno secondo le proprie regole …. Devono sempre ritornare al punto iniziale per poter ricominciare il gioco …
In questo senso il solaio, sul quale gli oggetti esistenti si vanno a collocare davanti alla finestre, … o le pitture delle pareti che mettono a nudo i frammenti emersi, sono le regole del gioco …Tra questi si muovono ordinatamente i tavoli, i libri, le sedie…
Sull’edificio del municipio, Utrecht – Olanda, Concorso e cantiere 1997-2000:
“…. L’edificio sembra aver dimenticato i suoi tesori e la sua origine …. Riscoprire il valore delle sale interne all’edificio neoclassico, in particolare la sala medioevale….Tornare all’idea di un municipio, un edificio pubblico,come un conglomerato di differenti costruzioni urbane. Conservare il carattere monumentale del fronte sulla banchina del canale, e promuovere una relazione più aperta e cordiale tra ilmunicipio e la nuova piazza sul retro…”.
Nuova sede IUAV a Venezia, 1998:
“ La prima lezione che si impara lavorando nei luoghi, di grande intensità storica, è una curiosa relatività temporale. Uno non sa più a quale tempo fare riferimento. Comincia la ricerca di luoghi a carattere atemporale , all’interno dei ricordi personali.


Una delle opere in cui l’architetto è condotto a riflettere sul rapporto tra spazio e tempo, è proprio il cimtero di Igualada, qui ogni elemento ha una doppia valenza  funzionale ed espressiva, e lo scorrere del tempo e il passaggio dell’uomo sono materializzati nelle tracce e negli elementi della costruzione.

L’ingresso al cimitero è caratterizzato da strutture in metallo che evocano le tre croci del calvario, la strada di ingresso si svolge verso il basso, quasi a voler escludere il resto del mondo, ci si infila in un solco dentro la terra. Giochi di luce all’interno delle cappelle, tagli, ferite, passaggi, sguardi, tracce del  tempo e di vita. 




lunedì 8 febbraio 2016

ALISON E PETER SMITHSON: ARCHITETTURA PER LA SOCIETA’, PER L’UOMO

Dalle esperienze brutaliste del  primo dopoguerra  Alison e Peter affrontano il dibattito contemporaneo e si inseriscono all’interno delle nuove riflessioni sulla città e sull’architettura, diventando  voci importanti all’interno  del Team X. Questo gruppo di architetti si forma per una comune reazione e una sensazione di inadeguatezza  che i suoi componenti provano nei confronti del pensiero del movimento moderno, e aspirando ad un nuovo inizio.



 Insieme ai loro compagni, Alison e Peter  contrapporranno  alla  visione totalizzante e alle certezza dei maestri del movimento moderno, un metodo diverso basato su un approccio ai problemi sperimentale ed empirico, che li porterà non a formulare una soluzione, ma soluzioni diverse per problemi diversi e soprattutto ad interrogarsi sul significato etico e sociale dell’architettura,  dando per scontato i concetti igienico-funzionali  ormai acquisiti con le ricerche del movimento razionalista.
 “ L’architettura non offre semplicemente “lo sfondo” per le relazioni esistenti ma le può creare. E’ una forza attiva della vita stessa. Non è più sufficiente fare degli edifici, dobbiamo crearli in modo tale che diano significato allo spazio attorno ad essi nel contesto dell’intera comunità.” ( Smitshon 1982).                   
In questo senso il Team X è un utopia, ma un utopia che riguarda il presente, perché il loro intento non è teorizzare ma costruire, e con loro,  il significato della parola “costruire” acquista un significato più alto perché diventa azione che dà significato allo spazio e quindi offre un servizio all’intera comunità, e gli architetti in quanto attori principali hanno una responsabilità verso l’individuo e la collettività.
Non si affidano a piani astratti ma all’osservazione dei “fatti umani” e delle situazioni presenti al momento del progetto.

Peter e Alison lavorano sulla macrostruttura, realizzano negli anni 60 i Robin Hood Gardens (1968-1972),e anche sulle infrastrutture con l’invenzione delle strade sopraelevate.
Nel complesso  londinese, i due architetti sperimentano e progettano con lo scopo di realizzare un architettura sociale: composto da 213 appartamenti organizzati in due blocchi, che si dispongono sui lati lunghi  attorno ad uno  spazio verde centrale topograficamente-trasformato.
 Interessante qui , come anche nella precedente a Scuola di Hunstanton  del 1949, oltre al modo in cui vengono utilizzo i materiali,  all’esternazione totale della struttura che diventa essa stessa definizione architettonica dell’impianto compositivo delle facciate, alla prefabbricazione,  è  soprattutto il tipo di impianto che utilizzano e l’inserimento del  spazio aperto e dell’elemento ludico all’interno dei loro progetti, memori della lezione del paesaggismo inglese : nella scuola tutte le parti funzionali ruotano attorno alle tre corti centrali al di fuori la recinzione è pensata come un fosso ( il famoso ha-ha) , e nel Robin Hood Garden lo spazio centrale modellato, è un grande parco, una collina, un grande gioco per i bambini, un piccolo paesaggio.





















Gli smitshon, insieme ai protagonisti del Team X, porteranno avanti un interessante studio su tipologie edilizie abitative, e modalità aggregative di cui punto fondamentale diventa l’osservazione e l’analisi  delletipologie tradizionali esistenti sul territorio, le loro variazioni e diversità  in base alla localizzazione,  un analisi scientifica che non prenderà in considerazione solo elementi funzionali  e costruttivi, ma anche elementi della vita ordinaria, e cercheranno di legare lo studio anche a modelli abitativi storici, questa indagine li porterà al disegno di 5 differenti piante per 5 differenti case:  isolate, hamlet, village, town and city.



Le aggregazioni dei tipi base, che sperimenteranno, avranno sempre un legame con il contesto, e cominceranno ad introdurre il concetto di tessuto, variazione, dialettica, ma anche proposte di citta’ e abitati che si dispongono nel paesaggio assecondandone l’orografia , in schemi ad albero e con strutture aperte alla  variazione.








Parallelamente e sempre con rigore scientifico Alison e Peter lavoreranno sullo spazio interno dell’abitazione, casa del Futuro : non c’è più la divisione tradizionale tra pareti, soffitto e pavimento, e anche gli arredi entrano in gioco, integrandosi all’interno delle strutture e delle partizioni dell’abitazione, vengono infatti tenuti sottocontrollo per mantenere e rafforzare spazio come elemento essenziale dell'abitazione






Il  patio centrale domina tutta la casa, e gli ambienti superano la tradizionale divisione tra zona giorno, zona notte, cucina  tutto confluisce in tutto, uno spazio continuo, fatto di continue aperture prospettiche e percettive, di scorci sempre diversi, completamente dinamico, uno spazio costruito intorno all'uomo.

lunedì 1 febbraio 2016

Rudofsky: Architecture without Architects


Dal 1929: molti architetti cominciano a sentire il bisogno di realizzare architetture più legate a realtà locali, specifiche ma soprattutto legate alla centralità dell’individuo, e al rapporto con il mondo di cui l’individuo è parte: paesaggio, ambiente esterno, città. In questa riflessione si inserisce Bernard Rudofsky: il punto più entusiasmante del suo lavoro, è che egli porta avanti una riflessione che trasversalmente percorre molteplici campi di interesse arrivando a formulare un interessante interazione tra razionalismo, mito mediterraneo,architettura vernacolare, e antropologia.
Personalità poliedrica, architetto, disegnatore, editore, fotografo e investigatore,  è stato anche uno dei più importanti critici del progresso della contemporaneità.
“Non ci vuole solo un modo di costruire ci vuole un modo di vivere”.
In  “Architecture without Architects” la esperienza del viaggio costituisce  uno strumento fondamentale per la ricerca e la conoscenza, documenta l’economia, l’intelligenza e la sostenibilità delle architetture anonime, che si integrano nel loro territorio e nel loro ambiente e da cui l’abitare contemporaneo deve imparare: gli esempi che ci mostra vengono dalla vita, dalla scene urbane, da scorci di strade, dalle architetture che si innestano nella città, l’architettura della gente e per la gente, le sue riprese fotografiche non sono mai deserte, mostrano i modi in cui le persone usano l’architettura e la vivono.
Rudofsky formulerà con questi elementi  un suo metodo, che lo porterà a introdurre l’uomo nelle sue architetture, metodo che sarà interamente esemplificato nei suoi disegni, e nelle sue piante animate ( che saranno poi prese da Ponti), che più che un documento su cui rileggere dimensioni e tracciati,  viene trasformato in un tracciato di passioni e azioni dell’individuo all’interno dello spazio architettonico.
Tra il 1934 e il 1936 costruisce insieme a Luigi Cosenza  Villa Oro, a Posillipo: l’intera costruzione poggia su un costone di tufo che affaccia su insenatura del golfo di Posillipo. La casa è articolata su tre piani nelle piante vediamo gli ambienti che si aprono e si chiudono verso il paesaggio a sud, coperti o scoperti, esterni o interni, i vari che gli ambienti confluiscono l’uno nell’altro formando una serie di masse e volumi che si mettono in rapporto con le masse di roccia del pendio vulcanico.Il rapporto con l’esterno è continuo, caratterizzato da continua permeabilità e fluidità, gli architetti rompono la divisione tra interno ed esterno, e lo fanno attraverso la disposizione delle stanze principali della casa che hanno sempre un espansione nello spazio esterno: giardino, terrazzo, balcone, logge in ombra o al sole, c’è uno spazio per ogni momento della giornata.

Cosenza e Rudofsky realizzano insieme anche un altro progetto “ una Casa ideale per un pescatore per Positano e per altri Lidi” 1936 di dimensione più piccola,qui i due lavorano sull’ existenz minimum in maniera del tutto diversa realizzando una versione naturale:
la cucina è un semplice piano di appoggio, il camino in un angolo raccolto, il blocco chiuso del bagno, il soggirno uno spazio completamente aperto sul mare ed il fico e la magnolia sorgono dal pavimento, evadendo la copertura con i loro rami più alti. Sulla parete di fondo una scala lineare porta al primo piano, dove si riconosce il patio che al piano terra era stato inglobato,e attorno al quale si dispongono, coperti e chiusi, la camera da letto ed il bagno.

Il Mediterraneo insegnò a Rudofsky, Rudofsky a me:così Gio Ponti definì la sua collaborazione con Bernard Rudofsky negli anni Quaranta, le loro idee confluiscono nel progetto dell'albergo San Michele a Capri: un albergo spontaneo, fatto di case-stanze separate, sparse in un bosco, ognuna con un patio, ognuna con un nome; e dalle case tanti sentieri-corridoi convergono a un minuscolo paese, cuore dell'albergo, ove risiede il direttore .
Il Mediterraneo di Rudofsky è bianco, quello di Gio Ponti colorato, ogni stanza ha un nome e un carattere: stanza degli angeli, stanza dei cavallini, stanza delle sirene,sono di Ponti.
L'idea della vasca da bagno a conca nel pavimento, fra muri, fresca acquea grotta nella casa, è di Rudofsky, e così l'idea delle scale di muro con le alzate in decorata ceramica. Li legava l'idea dell'architettura senza architetto.
Rudofsky fa un salto, e introduce nuovi spunti ed elementi di riflessione che ci insegnano a riappropriarci del territorio, del paesaggio ma soprattutto di un modo di vivere, che potrebbero soprattutto insegnarci a umanizzare e vivere le nostre città, le periferie, gli spazi e i paesaggi,  sempre  più anonimi, non solo attraverso forme e funzioni e architetture famose ma soprattutto ricreando dei legami, percettivi, visivi, fatti di racconti e immaginazione, di link che ci consentano di dare un nome ai nostri spazi di vita.